Chianche, in Irpinia, sbarra le saracinesche l’ultimo negozio
Due anni fa nel piccolo comune di Chianche, in Irpinia, sbarra le saracinesche l’ultimo negozio. Quasi 500 abitanti rimangono senza nemmeno uno spaccio di alimentari e prodotti di prima necessità: una condizione frequente nell’Italia delle aree interne e dei piccoli comuni, spesso popolati in maggioranza da anziani che fanno fatica a spostarsi nei centri vicini. Ma pochi mesi prima, nello stesso comune, nasce una piccola cooperativa. È fondata da giovani che lavorano nell’accoglienza dei migranti tramite progetti Sprar e nella rete dei Piccoli Comuni Welcome. Si chiama Tralci di vite, un nome che racconta già la particolare missione: rilanciare l’economia locale con la produzione del vino Greco di Tufo, «l’oro dell’Irpinia», partendo proprio dall’integrazione dei migranti e dal coinvolgimento della comunità.
In pochi mesi la cooperativa diventa parte integrante del territorio. «Partendo dall’accoglienza dei migranti – racconta la presidente di Tralci di Vite, Filomena Costanzo – abbiamo costituito una cooperativa di comunità che vuole essere protagonista di sviluppo locale». Coinvolgendo i giovani rimasti a Chianche e i migranti integrati Tralci di Vite riesce a rianimare il territorio offrendo servizi e beni alle persone, riaprendo il negozio del paese, creando qualche posto di lavoro, commercializzando prodotti come olio e conserve del consorzio Sale della Terra di Benevento cui la cooperativa aderisce. «Ora i miei nonni e tanti altri anziani del Paese – racconta Filomena con soddisfazione – possono scendere a comprare il pane sotto casa o farsi portare la spesa a domicilio se hanno difficoltà a muoversi». E aggiunge: «Nell’emergenza Covid-19 il market aperto e la presenza della nostra realtà hanno avuto una grande importanza per le persone. Abbiamo consegnato la spesa a casa e distribuito anche i buoni a chi era in difficoltà. C’era bisogno di comunità e noi c’eravamo».
Quella di Tralci di Vite è una delle oltre cento esperienze di imprese di comunità presenti in Italia e racconta quale può essere la rigenerazione delle zone isolate, ma anche delle aree urbane trascurate. Si chiamano «di comunità» perché rispondo a esigenze di un determinato territorio.
Non esiste ancora una legge che le disciplina e la definizione è nata «sul campo». Ma il Governo sta lavorando a una normativa mentre in alcune Regioni – come la Toscana, l’Abruzzo e la Campania – enti pubblici e privati ne stanno sostenendo e accompagnando la nascita, creando anche norme ad hoc e stanziando finanziamenti per farle crescere.
I grandi consorzi di cooperative, come Legacoop e Confocooperative le promuovono; la Fondazione Con il Sud le sostiene. Un fermento che il centro di ricerca Euricse ha provato a censire e fotografare in uno studio intitolato «Imprese di comunità e beni comuni – Un fenomeno in evoluzione».
«Le imprese di comunità – spiega il curatore del rapporto, Jacopo Sforzi – nascono inizialmente nelle aree interne e marginali per contrastare i problemi di spopolamento e l’assenza di servizi. L’esperienza più storica è quella dei Briganti di Cerreto nata nel 2011 sull’Appennino tosco-emiliano. Spesso questa è l’ultima soluzione per non far morire il territorio».
La differenza fra le imprese di comunità e le cooperative classiche risiede proprio nel modello: protagonisti sono i membri della comunità stesse da rilanciare e le risorse utilizzate sono quelle del territorio. «Non sono modelli calati dall’alto – aggiunge Sforzi – e prevedono l’avvio di processi imprenditoriali autonomi e auto organizzati che coinvolgono almeno in parte la comunità. È un modo per ripensare in maniera profonda il modello di sviluppo». Le cooperative di comunità sono nate in tutte le regioni e in modo uniforme al nord, centro e sud Italia. Hanno forme organizzative varie – soprattutto cooperative e di tipi diversi – e si occupano di settori come il turismo, l’agricoltura, i servizi alla persona, la cultura, l’animazione del territorio, la produzione di energia.
Spesso nascono dall’iniziativa di gruppi di cittadini con ideali e progetti comuni. «Non si limitano però – spiega ancora Sforzi – alle aree marginali. Anche in molti quartieri urbani ne sono nate e hanno un ruolo fondamentale nel rigenerare intere zone, come a Perugia con il cinema di comunità Postmodernissimo. L’obiettivo è sempre quello di lavorare insieme per lo sviluppo locale».
E il curatore del rapporto prosegue: «Se una scuola di un piccolo centro chiude un anziano dovrebbe essere interessato a finanziare l’educazione, perché altrimenti le famiglie più giovani se ne vanno e anche i servizi agli anziani vengono meno. Paradossalmente l’emergenza Covid-19 ha fatto emergere il tema dell’aiuto reciproco fra i membri di una comunità in modo ancora più forte. Segni di speranza – conclude Sforzi – perché tanti cittadini si stanno rimboccando le maniche per attivarsi nei processi di sviluppo, impegnandosi in prima persona per migliorare la qualità della vita».
(Corriere della Sera)